Is 45, 1.4-6; 1Tes 1,1-5b; Mt 22,15-21.

         La fede cristiana, giustamente perché noi siamo considerati da Gesù come fermento, luce e sale nella società, copre tutti gli aspetti della vita, anche quello sociale e politico che noi, invece, affrontiamo con una certa resistenza, forse perché non ne conosciamo il fondamento biblico. Como punto di partenza dobbiamo affermare che non ci può essere separazione tra fede e vita come, purtroppo, accade con molti. Invece il richiamo alla giustizia nelle relazioni sociali è frequente nella Bibbia. La prima lettura ci riporta al tempo dell’esilio del popolo di Dio in Babilonia (6° sec. a. C.); sono già passati una trentina d’anni e, quando sembra che ormai non c’è nessuna speranza, un profeta annuncia l’inatteso: Dio sta per intervenire in nostro favore suscitando un re che ci libererà dalla schiavitù. Attraverso li intricati eventi politici militari dell’epoca, questo profeta scorge il piano di salvezza di Dio, perché la storia è nelle sue mani. Il nuovo astro che spunta all’orizzonte della storia è Ciro, il re dei persiani, che in poco tempo sconfigge i regni dell’Asia Minore e dell’Oriente e, una volta al trono, emana un editto che lascia tutti sorpresi: i deportati sono liberi di ritornare al loro paese. Agli occhi di questo profeta esiliato con il suo popolo, Ciro è l’eletto di Dio per portare il suo popolo alla libertà (v. 4), Ma, questo Ciro è un pagano: Dio si serve anche di un pagano per realizzare il suo piano, perché è il Signore della storia (v. 6b). Ciro non era il Messia, ma uno strumento nelle mani di Dio; è Dio che muove gli eventi della storia, è Dio che entra nella dinamica della politica. Ed è sulla relazione tra politica e fede che Gesù è interrogato nel vangelo di oggi. Per l’occasione si uniscono due gruppi di nemici storici: i farisei e gli erodiani per chiedere un suo parere: “E’ lecito pagare le tasse ai romani dominatori?” (v. 17). Conosciamo la perspicacia di Gesù: già il vederli uniti lo insospettisce, ma anche per l’adulazione con la quale iniziano la conversazione (v. 16b), per questo Gesù, conoscendo la loro malizia (v. 18), non esita a chiamarli ipocriti (v. 18b).

Vediamo in che consiste la questione. Il popolo ebreo, la Palestina, era dominato dai romani. L’imperatore esigeva che ogni suddito di 14 anni se uomo e 12 se donna, pagasse il tributo fino a 65 anni e, per questo, faceva il censimento che provocava violente reazioni popolari (Lc 2,1-5; At 5,37). La domanda era: è lecito pagare questo tributo a un’autorità che opprime? Qualunque risposta, contro o a favore era pericolosa. Se Gesù si dichiarasse contro il tributo, poteva essere accusato dai romanii di sobillatore del popolo (come di fatto avvenne durante il processo, cfr. Lc 23,2); se si dichiarasse a favore si sarebbe scontrato con le antipatie del popolo che odiava i romani colonizzatori. Le tasse sono pagate sempre e ovunque pagate di malavoglia, ma ciò che rendeva ancora più odioso il tributo era un fatto religioso, poiché sulla moneta c’era stampata l’immagine dell’imperatore che si dichiarava divino e, sul retro, il titolo di Sommo Pontefice con l’immagine di una donna seduta, forse la madre dell’imperatore Tiberio, simbolo della pace. È riconosciuta la ripugnanza degli ebrei per le immagini, proibite dalla legge. Quindi usare quel denaro con l’immagine dell’imperatore/dio era come dare un assenso all’idolatria. Gesù chiede che gli mostrino la moneta, e loro, ingenuamente, cadono nel tranello: nonostante questa ripugnanza alle immagini, non avevano scrupoli ad averle, trattandosi di denaro. Dov’è la coerenza? Gesù non risolve la questione con un o con un no, così gli accusatori si trovano accusati. Da qui la risposta di Gesù: “Rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (v. 21b). Una frase che rimasta celebre nella storia ma, che è servita per tutti i gusti. L’hanno usata per difendere l’autorità del papa o dell’imperatore, per affermare la separazione tra Chiesa e Stato, ma anche per separare fede e vita, con tutte le gravi conseguenze che ne sono seguite, di una fede senza radici e senza risultati.

Il messaggio di Gesù è chiaro: è un dovere morale oltre che civile contribuire al bene comune con il pagamento del tributo (lo Stato non coglie il denaro dagli alberi per i programmi sociali!). Non c’è ragione che giustifichi l’evasione fiscale o il furto dei beni dello Stato e questo, qualunque sia la linea politica ed economica scelta dal governo, Il discepolo di Cristo è chiamato ad essere un cittadino onesto ed esemplare, attivamente impegnato per la costruzione di una società più giusta, espressione del Regno di Dio. “Dare a Cesare che è di Cesare” (v. 21b) significa dargli la possibilità e i mezzi per svolgere il suo compito di governante per il bene comune. Ma il cittadino ha anche la responsabilità di esigere dagli amministratori la retta designazione di questo denaro. Ma Gesù ha anche dichiarato: “Date, restituite, a Dio quel che è di Dio” (v. 21b): l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, è proprietà sua. Come deve essere restituito il denaro a Cesare perché c’è la sua immagine, così l’essere umano dev’essere restituito a Dio perché ha impressa in sé la sua immagine. Nessuno può appropriarsene, né sfigurare la sua immagine con nessuna forma di dominazione e strumentalizzazione. Siamo amati da Dio, come ricorda san Paolo nella seconda lettura (v. 4). L’essere umano è l’unica creatura sulla quale è impresso il volto di Dio e colui che lo strumentalizza, lo frutta, lo domina, lo tratta come oggetto … deve restituirlo a Dio.

COME noi consideriamo e trattiamo il prossimo? Vediamo in lui l’immagine di Dio? Perché come trattiamo il prossimo così trattiamo Dio, ce lo dice Gesù: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Come e quando? In momenti e situazioni concreti: “Avevo fame … avevo sete, ero nudo … prigioniero, ammalato… straniero”, e voi siete venuti in mio aiuto, “venite, benedetti dal Padre mio” (Mt 25, 35-44). Così noi traduciamo la nostra fede in opere; e non si accettano alibi perché la fede senza le opere è morta (Gc 2,20). Questa attenzione alle necessità del prossimo comincia con il prossimo più prossimo … in casa, nel nostro ambiente di studio, di lavoro. Ogni attenzione data al prossimo, chiunque sia, è data a Dio. L’amore a Dio e l’amore al prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo (1Gv 4,19), perché “Dio è amore” (Gv 4, 8.16). L’amore, così concepito, diventa il respiro di chi vive in Dio (1Gv 4,15).