Uno dei temi importanti della Bibbia è quello della responsabilità personale: fino a che punto noi siamo responsabili dei nostri atti. Quando sbagliamo cerchiamo in ogni modo di difenderci allegando attenuanti, così preziose agli avvocati nella difesa, a qualunque prezzo, del loro cliente. Ma dall’assumere la responsabilità dei nostri atti sorge la nostra risposta alla chiamata di Dio, come ce lo illustra il vangelo di oggi.
La 1ª lettura, che anticipa il tema del vangelo, fa riferimento ad un momento storico del popolo ebreo, verso la fine del VIº secolo prima di Cristo. Durante l’esilio di Babilonia i figli dei deportati discorrevano sulla distruzione di Gerusalemme e le atrocità commesse dai babilonesi, e si consideravano vittime di una ingiustizia: accusavano Dio di averli castigati per il peccato commesso dai loro Padri e facevano circolare un proverbio: “I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati” (Ez 18,2). Cioè i nostri Padri hanno peccato e noi ne paghiamo le conseguenze. Il passaggio della lettura di oggi è una risposta importante a questa idea che, purtroppo, circola anche oggi. E’ vero che c’è una solidarietà nel male, per cui soffrono anche gli innocenti, ma questo non è un destino ineluttabile, si può rompere la catena del male quando, uscendo dalla rassegnazione o dalla rivolta, si dà il proprio contributo. Ognuno risponde dei suoi atti e Dio accorda generosamente il suo perdono a colui che abbandona la via del male (v. 27-28).
Nel vangelo di oggi Gesù illustra questa verità con la parabola dei due figli ai quali il padre chiede di andare a lavorare nella vigna. Questa è la prima di tre parabole che Gesù racconta nella sua disputa a Gerusalemme con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo. Le altre due le leggeremo nel vangelo delle prossime domeniche. Il padre, quindi, chiede ai due figli di andare a lavorare nella vigna. Il tema della vigna è classico nella Bibbia per indicare il popolo di Israele e quanti Dio incarica di prendersene cura. La vigna da coltivare è la metafora del popolo di Israele, trascurato dai loro capi.
La risposta del primo figlio è secca e un poco irrispettosa, come capita spesso nei dialoghi tra genitori e figli. Però, alla fine, si pente e va nella vigna, cambia direzione (v. 29), si converte e, con il lavoro, cancella l’arroganza del suo no (San Girolamo). Il secondo figlio risponde subito sì, come un soldato; come ad indicare un rapporto più da padrone – servo, che tra padre e figlio, ma non và a lavorarre (v. 30).
Gesù chiede: chi dei due ha compiuto la volontà del Padre? Come per dire: che ve ne pare? Gesù ci obliga a prendere posizione, a dare il nostro giudizio, ma ci chiede anche di vedere, realmente, con chi noi stiamo. Il nostro si è coerente? Non chi dice “Signore, Signore fa la volontà del Padre” (Mt 7,21), avverte Gesù, ma chi mette in pratica la volontà del Padre. Vediamo più da vicino i personaggi di questa parabola.
Il contesto è quello della polemica tra i capi del popolo e Gesù che già si trova a Gerusalemme. Il padre che chiede ai figli di andare nella vigna è Dio; il lavoro è urgente perchè si rischia di perdere il raccolto. Il primo figlio che risponde si ma, non và a lavorare simbolizza i pagani, che non riconoscono Dio, vivono lontani da Lui, gli dicono no ma, riflettendo sulla loro situazione si convertono e dicono si. Il loro no non è definitvo, si aprono alla grazia e alla misericordia di Dio. Entrambi i figli sono stati incoerenti con quello che hanno detto. Però viene preferito colui che ha fatto ciò che era giusto, piuttosto di colui che lo aveva solo detto. Il fare è ciò che conta, il dire rimane sempre ambiguo. L’interpretazione che Gesù dà della parabola però va ancora più oltre. Non sottolinea soltanto il fare, ma il “pentirsi“. E’ il simbolo del peccatore, di ognuno di noi, che raggiunto dalla grazia di Dio crede ed è salvato. Il secondo figlio che dice sì e non va nella vigna, è il popolo ebreo che Dio ha scelto per sè e che si sente sicuro, si considera giusto perchè loda Dio con riti, celebrazione e preghiere … ma la sua vita non corrisponde a quello che è, celebra e professa. “Faremo tutto quello che il Signore ci ordinerà” ripete il popolo di Dio a Mosè (Es 24,3), ma la Bibbia registra ripetute ribellioni. Il suo si non è sincero, nè perseverante.
Ed ecco la drammatica conclusione: i bubblicani e le prostitute, il cui peccato è sotto gli occhi di tutti e si meritano il titolo di “peccatori pubblici”, si convertono alla grazia di Dio e precederanno nel Regno di Dio coloro che si considerano giusti. Attenzione, Gesù non sta indicando i pubblicani e le prostitute come modelli di vita, ma come privilegiati della grazia che li porta alla conversione. I capi dei sacerdoti e gli anziani sono giudicati meno degni dei pubblicani e delle prostitute, due categorie assai disprezzate al tempo di Gesù, anche perché, i primi, collaboravano con i Romani dominatori. I capi dei sacerdoti si comportano come il secondo figlio che dice “Sì, signore“, ma poi non fa nulla. Noi siamo più vicini a chi dei due?
Se Gesù con le persone religiose soddisfatte di sè è molto duro, è perchè vuole svegliarci. Se ci guardiamo allo specchio di questa parabola e riconosciamo la nostra situazione di peccatori, scopriamo che Lui può guarirci. Riconoscerci per quello che siamo, poveri peccatori che, senza l’aiuto di Dio, siamo capaci di fare solamente il male. Chi può negare la nostra propensione al male? Allora, il nostro sì sia sì con le parole e i fatti; come Gesù che si è sempre messo a disposizione della volontà del Padre perchè il suo piano di salvezza fosse portato a termine e offerto a tutta l’umanità.
La parabola ci interroga perché essa non solo parla a noi, ma parla di noi. Nella parabola noi siamo i personaggi del racconto, perché la Parola di Dio è proclamata per essere attualizzata. Ma il messaggio è consolante: il no dell’uomo, se ha sempre delle conseguenze, non è definitivo; in ogni momento può diventare un si; chi si allontana dal peccato può contare con la misericordia di Dio. Dio è paziente con ognuno di noi; non si stanca, non desiste dopo il nostro no. Ci lascia liberi anche di allontanarci da Lui e di sbagliare! Come è meravigliosa la sua pazienza: Lui ci aspetta sempre e raccoglie trepidante il nostro ritorno, il nostro no diventato sì.
La salvezza è un dono che non dispensa la nostra risposta. Sant’Agostino diceva: “Colui che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. Dio ci ha crearci liberi, con tutte le consequenze che questo comporta, anche il rischio di dire no al suo dono. La fede ci chiede di rinnovare ogni giorno la scelta del bene rispetto al male, la scelta dell’amore al prossimo rispetto all’egoismo. Se ci convertiamo a questa scelta, troveremo i primi posti nel regno di Dio. Ma la conversione, cambiare il cuore, è un processo a volte doloroso perché Gesù vuole farci superare una religiosità intesa solo come pratica esteriore e abitudinaria che non incide sulla nostra vita; una religiosità superficiale, dominata dal devozionismo, invece dell’adesione a Lui. Con il vangelo di oggi Gesù vuole ricordarci che la vita cristiana non è fatta di sogni e di belle aspirazioni, ma di impegni concreti per aprirci alla volontà di Dio. Buona domenica!